Con l’ordinanza n. 3627 del 12 febbraio 2025, la Cassazione torna sul delicato tema dei limiti dell’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, fornendo importanti chiarimenti interpretativi.

Il caso riguarda un cardiochirurgo licenziato per giusta causa per aver inviato una e-mail di critica al proprio superiore e, per conoscenza, a tutti i medici dell’istituto (147 destinatari). Nella comunicazione, il professionista lamentava la propria esclusione dall’attività chirurgica e accusava il proprio superiore di mobbing nei suoi confronti, motivato da vecchi dissidi. Particolare rilevanza, nell’oggetto del contendere, assumeva l’espressione con cui tale comunicazione si concludeva, evocativa dell’episodio di cronaca relativo a George Floyd un soggetto afroamericano ucciso a Minneapolis da un agente di polizia bianco: “tolga il Suo ginocchio dal mio collo. Come Lei, dovrei poter respirare anche io“. La chiosa finale, secondo l’azienda ospedaliera, dotava la critica al superiore gerarchico di una connotazione razziale, soprattutto tenendo conto la provenienza mediorientale del cardiochirurgo che avrebbe in questo modo travalicato il limite della continenza formale della propria critica.

La Corte d’Appello di Milano aveva ritenuto che tale comunicazione eccedesse i limiti di continenza formale e pertinenza del diritto di critica, ma aveva comunque ritenuto la sanzione espulsiva sproporzionata ed ha quindi concluso per l’applicazione la tutela indennitaria prevista dall’art. 18, comma 5, dello Statuto dei Lavoratori. La Cassazione ha invece cassato la sentenza, fornendo importanti principi in materia e rinviando alla medesima Corte d’Appello.

La Suprema Corte ribadisce che il diritto di critica del lavoratore, tutelato dagli artt. 21 Cost., 10 CEDU e 1 St. Lav., si esercita attraverso l’esternazione di un giudizio che, per sua natura soggettiva, può contenere una valutazione negativa di fatti e comportamenti, con inevitabile potenzialità lesiva della reputazione del destinatario e del suo onore.

Tale diritto incontra tre limiti fondamentali: continenza formale, sostanziale e pertinenza. La continenza formale richiede che l’esposizione avvenga nel rispetto dei canoni di correttezza, consentendo l’uso di qualsiasi espressione purché funzionalmente collegata al dissenso manifestato. Il limite è superato solo in presenza di epiteti volgari o infamanti, privi di nesso con la critica espressa.

La continenza sostanziale esige che i fatti oggetto di critica siano veri, anche solo putativamente e cioè sulla base di un’incolpevole convinzione del dichiarante. La pertinenza richiede che la critica risponda ad un interesse meritevole di tutela, da valutarsi, nel caso di specie, non in base all’interesse pubblico alla diffusione della notizia, ma in relazione alla correlazione con le problematiche lavorative.

Nel caso specifico, la Cassazione ha ritenuto che la Corte d’Appello non abbia correttamente applicato questi criteri. In particolare, ha evidenziato come la frase specificamente contestata dovesse essere valutata nel contesto complessivo della comunicazione, verificando se costituisse un’espressione riassuntiva della critica articolata o un’offesa autonoma e gratuita.

La sentenza sottolinea inoltre che, nell’ambito del rapporto di lavoro, costituisce interesse meritevole di esercizio del diritto di critica, quello relativo alle condizioni di lavoro e dell’impresa, mentre esulano le critiche alle qualità personali del datore oggettivamente slegate dal rapporto contrattuale.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ha accolto il ricorso del lavoratore e rinviato alla medesima Corte d’Appello alla quale spetterà dunque il compito di verificare se la frase a effetto fosse stata impiegata in modo da ledere, gratuitamente, il superiore gerarchico del dipendente licenziato.

 

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